LO SPAZIO DELL'UTOPIA 

 

 

 

 

 

Mondoperaio - gennaio 2012

 

La prima parte è stata pubblicata con il titolo "Le site de l'utopie" sulla webrivista francese Trapèze nell'ottobre 2011

 

Pubblicato in quattro puntate sul Quotidiano dei Contribuenti - agosto 2023

 

A Parigi per la mostra-installazione Voyage(s) en utopie. Si tratta di una grande opera multimediale di Jean-Luc Godard nella quale scene dei suoi film si affiancano a sequenze video realizzate per l’occasione, spazi allestiti dal maestro entrano in rapporto dialettico con scritte sparse dappertutto. Sono con Sara, la mia compagna di vita. Per fortuna è francese e con francese puntiglio prova a decifrare i doppi e tripli sensi che ogni frase condensa.
Esco dal Centre Pompidou frastornato: sono sicuro di non aver capito tutto e sono sicuro di non aver capito bene. Del resto è quanto sempre mi accade davanti alle opere di Godard. Ma come sono salutari le sfide che lancia all’intelligenza, come sono stimolanti i suoi flussi di immagini e parole che forse non vogliono essere tanto capiti quanto vissuti come un’esperienza. E che boccata d’ossigeno la sua guerra al semplicismo, alle storie narrate come se fossimo dei bambini sciocchi.


Vado alle Halles, dove Marco Ferreri girò nel 1973 il suo film Non toccare la donna bianca. Mentre il quartiere veniva sventrato dalle ruspe per fare posto a un centro commerciale sotterraneo, Ferreri utilizzò quel grosso buco nel cuore di Parigi per ambientarvi la storia del generale Custer sconfitto dagli indiani.
Il film ipotizza un tempo e uno spazio sintetici dentro i quali precipitano epoche e luoghi diversi: passato e presente convivono nella stessa immagine, siamo nel lontano west ma anche in una moderna metropoli occidentale. Il regista visualizza simultaneamente la trama e il suo significato metaforico, l’epoca di Custer e quella di Nixon gli sembrano contemporanee in quanto identiche sono le loro ideologie. Anche nel 1973 ci sono indiani inermi e soldati del Settimo Cavalleria pronti a colpirli: cambiano gli attori ma il copione resta lo stesso.


Non toccare la donna bianca è una sorta di manifesto poetico del cinema anarchico di Ferreri. Ma la sua anarchia non è un generico ribellismo contro il potere costituito o una comoda via di fuga per evitare di fare i conti con le cose come sono. L’anarchia di Ferreri è un autentico sentimento del reale: il suo sguardo velato di diffidenza è quello di chi sospetta sempre di stare subendo un’imposizione. Anarchica è anche la sua dimensione estetica: il regista destruttura il linguaggio filmico in nome di un cinema sempre da inventare, volta per volta.


Non toccare la donna bianca rappresenta un momento chiave del percorso ferreriano perché apre a una visione del mondo meno negativa. Il regista milanese intuisce per tempo che bisogna voltare pagina dunque, rischiando l’incomprensione, da sabotatore si fa profeta e nei film successivi prova ad andare oltre il Novecento.
Ferreri ritiene che la catastrofe definitiva, quella da lui paventata e al tempo stesso auspicata in film come La grande abbuffata, sia già avvenuta: «Non con uno schianto ma con un piagnisteo» come aveva vaticinato Thomas Stearns Eliot. Uno stadio della civiltà occidentale gli sembra ormai concluso, è giunto il momento di rimboccarsi le maniche, di provare a edificare il nuovo. Ferreri non ha paura dei «barbari» contemporanei, non è tra quanti temono la messa in discussione dei vecchi valori. «Ho sentito urla di furore / Di generazioni, senza più passato, di neo–primitivi» canta allarmato Franco Battiato con la collaborazione letteraria del filosofo Manlio Sgalambro. Più che l’incertezza del futuro a Ferreri fanno paura le certezze del passato: «La vecchia cultura era il lavoro di diciotto ore, i bambini che lavoravano a sei anni… che altro era? La vecchia cultura copriva veramente una situazione di disperazione assoluta».


Vado alle Halles per vedere che ne è stato di quel buco e per interrogarmi su cosa resta dell’utopia che Ferreri vi proiettò. Trovo panchine, vialetti dove passeggiare quietamente, persino una bella scultura modernista. Gli spazi commerciali sotterranei non sono male, forse un poco claustrofobici.
Dell’utopia di Ferreri – sulla quale Maurizio Grande scrisse illuminanti pagine esegetiche – qua nessuna traccia.


Marco Ferreri concluse la carriera con il nostalgico Nitrato d’argento dedicato alle sale di una volta. A chi come me il cinema l’ha scoperto davanti allo schermo televisivo, il mito della sala risulta piuttosto estraneo: il cinema non è un luogo o un nastro di pellicola che scorre ma – secondo le magnifiche parole di Ferreri – l’infinito a portata di sguardo.


Il Novecento ha fatto il cinema, purtroppo non ha fatto gli spettatori.


Il regista Silvano Agosti dice che «da quando il cinema è morto tutti fanno film». Il pensatore Guido Ceronetti annota: «Dubbi circa la morte di Dio, ne ho molti; sulla morte del Cinema, nessuno». Chissà.


A proposito dei piagnistei sulla crisi dell’industria cinematografica, ecco un luminoso consiglio del regista François Truffaut: «Quando nel cinema le cose non vanno molto bene, è da augurarsi che peggiorino, di modo che le colonne del tempio, lentamente trasformato in bordello, crollino provocando un rinnovamento dalle fondamenta».


Amo il cinema non per quello che fu, tanto meno per quello che è, lo amo per quello che potrebbe essere. Così talora mi capita di fantasticare che la storia del cinema debba ancora cominciare, che quanto finora s’è visto non è che la preistoria…
Avanti video!


Dal Novecento l’utopia esce con le ossa rotte: la realtà ha vinto. Le utopie palingenetiche sono definitivamente tramontate e ancora ci circondano cumuli di macerie, strascichi attossicanti. Non sempre i sognatori sono dei candidi, a volte sono degli sterminatori.


Per taluni della mia generazione risulta alquanto difficoltoso trovare una definizione adeguata del proprio credo politico. Non comunisti perché antipatizzanti dell’Unione Sovietica quando ancora c’era, non socialisti perché il socialismo italiano è nell’accezione comune quello cosiddetto riformista.
Quando militavo in Rifondazione Comunista mi capitava talvolta di essere trattato con un certo sprezzo: tronfi della loro fede in non si sa bene quale comunismo, alcuni compagni reagivano con fastidio al mio interrogarmi su come le nostre idee potessero essere rifondate. Tra gli epiteti collezionati – «comunista all’acqua di rose», «paternalista verghiano», «uomo dell’Ottocento con il cuore in mano» – «socialdemocratico massimalista» è quello che mi piace di più. In attesa di progetti nuovi, mica male le vecchie ricette socialdemocratiche: scuole migliori, più ospedali…


Lasciai il partito quando presi atto che non si voleva rifondare il comunismo (o, come io auspicavo, la sinistra cosiddetta massimalista), ma soltanto il partito comunista.


Quanto mi mancano quelle umide stanze illuminate al neon, quell’aria sudaticcia, quei rotoli di manifesti ingialliti ammonticchiati nell’angolo più buio. E quelle parole appassionate, veementi… quegli ordini del giorno che provavano a dare un assetto logico alle nostre confuse speranze.


Il disordine mentale della sinistra contemporanea è figlio del non volersi guardare allo specchio con onestà. La storia della sinistra pullula di errori: i massimalisti si sono lasciati abbagliare dai miraggi delle dittature comuniste, i riformisti si sono fatti abbindolare dalle fole dell’iperliberismo totalitario. Ma la storia della sinistra è al tempo stesso nobilissima: ha dato un contributo decisivo alla lotta di milioni di donne e di uomini per migliorare le proprie condizioni sociali.


Niente ha danneggiato la nostra causa quanto i nostri silenzi per non danneggiare la causa.


Stanchi della lunga battaglia, cominciammo a discorrere dell’immodificabilità del reale. Nell’altra stanza i signori del capitale, indisturbati, si modificavano la realtà a loro comodo.


Il capitalismo a oltranza, l’ultima delle ideologie, ci ha chiesto di rinunciare ai valori perché d’intralcio all’efficienza del meccanismo produttivo. Ora, tramontando, ci lascia con le tasche e con le anime vuote.


Della morte delle ideologie c’è poco da rammaricarsi. Il Novecento ha ucciso le ideologie ma non le nostre idee che a me sembrano più necessarie che mai. Giustamente Leonardo Sciascia correggeva la celebre battuta di Woody Allen: «Dio è morto, Marx pure e io mi sento bene. Voglio continuare a vivere, voglio continuare a pensare, voglio vedere dentro le cose, voglio giudicarle per come sono e voglio essere libero».


Il mancato dialogo tra Craxi e Berlinguer che tanto ha nuociuto a Craxi e a Berlinguer nonché a tutta la sinistra italiana, rappresenta un monito per l’avvenire: quello tra sinistra riformista e sinistra massimalista è un dialogo necessario.


Affinché la sinistra sia vitale, l’utopia deve avervi uno spazio. Una sinistra arresa alla dittatura dell’esistente a lungo andare smarrisce la propria ragion d’essere. La sinistra ha bisogno dei massimalisti per additare la meta lontana e dei riformisti per condurvi la nave con saggezza.


Nella sua accezione originaria il riformismo trovava senso contrapponendosi dialetticamente al massimalismo: scendere a compromessi con la società capitalista per ottenere piccoli risultati immediati, piuttosto che aspettare il giorno in cui le condizioni fossero mature per trasformare tutto radicalmente. Oggi, sia a sinistra che a destra, molti si proclamano riformisti, di un riformismo generico che non specifica quali riforme voglia promuovere. Forse costoro vogliono solo affermare il loro non amore verso lo status quo. Ma noi progressisti ormai dovremmo saperlo bene che riformare una cosa non vuol dire necessariamente migliorarla.


Più ancora del sistema talora inquietano certi suoi contestatori, certi facinorosi rivoluzionari in peggio.


C’è anche una sinistra radicale che ha poco da farsi perdonare. Una sinistra massimalista che prese le distanze dalle tirannie comuniste per tempo e che, pur avendolo ispirato, sconfessò il Sessantotto non appena rivelò il suo volto fanatico. Parlo della sinistra francofortese: la diagnosi del «mondo amministrato» fatta da Max Horkheimer e da Theodor W. Adorno si è rivelata profetica. Eppure per una certa sinistra quella lezione è «superata»!


Lasciare alle destre la difesa dei valori dell’occidente, cioè di molti dei valori fondativi della sinistra, è un errore dalle conseguenze incalcolate.


La cosiddetta Seconda Repubblica che così poco ci piace, è la meritata espiazione collettiva per la colpa di aver distrutto con violenza la prima.


Oggi che trionfa una diffusa antipatia per la politica, oggi che questa ha finalmente abbandonato la pretesa di determinare tutto, con rinnovato entusiasmo dovremmo accostarci a essa. Sì, c’è tanto bisogno di politica: per spiegare ai giovani con quali risorse verranno pagate le loro pensioni, per cercare di capire chi dovrà assistere notte e giorno i milioni di vecchi che l’allungamento della vita va producendo, per definire quali debbano essere i limiti di una scienza sempre più in preda a deliri d’onnipotenza…


Votare non è tracciare una croce sopra una scheda elettorale: significa esprimere il proprio consenso. La democrazia non vive di rituali elettorali, vive del consenso che le diamo sentendoci rappresentati dagli esponenti politici che ci garbano.


Dal Novecento escono malconce anche le utopie degli industriali umanisti. Una tristezza indicibile vela il cielo di Ivrea, la città nella quale Adriano Olivetti provò a concretizzare la sua utopia sociale e urbanistica al servizio della comunità. Dopo la sua morte il Canavese è stato devastato da imprenditori discutibili e oggi è una zona economicamente depressa: restano un museo a cielo aperto dell’architettura moderna e il rimpianto delle nuove generazioni che dai loro vecchi ascoltano i racconti dell’età dell’oro.


Sappiamo bene che la redenzione sociale non è alla nostra portata, che le uniche redenzioni possibili sono quelle estetiche e quelle metafisiche. Eppure non ci rassegniamo a deporre il sogno politico nel cassetto. Restiamo qua - impigliati in questo tempo nero - e sussurriamo al vento il nostro bisogno di liberazione.


Il dramma di questo stadio della modernità è uscirne. Gettati nell’oscuro presente senza orizzonti, rimanere lucidi per trovare i passaggi nascosti.


Da questa modernità non si esce con un «post».


Dopo aver ascoltato il suono della parola pubblico in bocca ai burocrati dell’arte, non si può che aborrire il proposito di creare per il «pubblico».


L’odierna industria culturale sembra irriformabile: chi ne fa parte non osa criticarla per paura di venire estromesso, gli altri vengono zittiti con la terroristica accusa di essere dei risentiti. Per fortuna un sistema che non tollera critiche è incamminato verso la propria rovina.


Le capitali dell’industria culturale ogni autunno sono prese d’assalto da legioni di giovani aspiranti a sfondare, a diventare qualcuno. Oppure, qualora dovesse andare male, a essere assoldati dal sistema come «professionisti». L’idea che l’arte si possa farla per niente – per il piacere che dà, per una necessità interiore – la considerano puerile. Così le strade di Roma e di Milano pullulano di attempati «professionisti» in esubero che nessuno ha voluto comprare.


L’arte di Stato nei paesi poco meritocratici è un giocattolo per i figli dei ricchi finanziato dai figli dei poveri.


Si cammina per le strade di Napoli ammirati da tanta civiltà musicale. Un popolo che se ne infischia delle mode dell’industria discografica e si specchia in un universo canzonettaro autoctono di divi minimi che vengono dai bassi.
Superfluo stigmatizzare la boria con la quale i lacchè delle grosse fabbriche musicali bollano tutto questo come «sottocultura»: i napoletani – saggiamente – se ne fottono.


Nell’industria culturale la competizione è spietata. Ecco il paradosso dell’artista contemporaneo: per dare voce al fanciullino che alberga in lui, per mandare messaggi di fratellanza universale, per esprimere la sua parte migliore… deve essere il più cinico tra i cinici, il più arrivista tra gli arrivisti, il più stronzo tra gli stronzi.


L’artista autentico desidera comprendere più che essere compreso.


L’artista autentico – ci ha insegnato Arthur Schopenhauer – adopera l’arte non per affermare il proprio io, bensì per liberarsene oggettivandosi nell’opera.


Il Novecento è finito, non tutti se ne sono accorti.


La critica al momento più necessaria è quella culturale: la critica attenta non tanto alla forma o al contenuto dell’opera, ma alla sua sostanza. Costruite le fondamenta di una nuova cultura e di una nuova arte si potrà – con occhi nuovi – separare il grano dal loglio di questi anni.


«Un classico in letteratura, un monarchico in politica, un anglo–cattolico in religione»: l’autodefinizione di Eliot ha poco di paradossale. I suoi magnifici Quattro quartetti additano infatti la rotta di una fase per così dire classica del modernismo. Oggi Eliot risulta nostro contemporaneo non tanto per i furori giovanili quanto per i posati esiti della maturità. Oggi ci parlano soprattutto i modernisti che seppero superare la fase spettinata per guadagnare l’età adulta: il secondo Eliot, l’ultimo Pound, il nuovo Godard…


Tra i regali venefici dei nostri anni c’è una certa immagine di Jorge Luis Borges. Il Borges che talora ci viene proposto non è lo scrittore amante della misura classica, lo schopenhaueriano buddista attanagliato da sconcertanti ansie metafisiche, l’indagatore di vertiginose verità possibili come la coesistenza di universi paralleli: lo scrittore argentino ci viene presentato come un compiaciuto manierista, come un maniaco di inutili citazioni, come una specie di Calvino maggiore. Povero Borges, ridotto alla controfigura di se stesso, contrabbandato per un vecchio giocherellone!
Io amo un altro Borges: il veggente che intravide uno degli sbocchi del modernismo novecentesco e con il suo sorriso buono se ne sta là a indicare il sentiero.


Verso la metà del Novecento Adorno scriveva: «Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine». Missione compiuta. A noi tocca il compito ulteriore, ovvero – parafrasando un verso di Friedrich Nietzsche – costruire da queste rovine un mondo: selezionare nel magma una serie di frammenti per sintetizzarli in un nuovo cosmo, mai dimenticando che per apparire vera un’opera contemporanea deve avere qualcosa che non tiene.


È il momento di dire ciò che siamo, ciò che vogliamo. Domattina potrebbe essere tardi.


Nel «fallimento» dei Cantos è la loro riuscita. Si tratta infatti di un’opera programmaticamente smembrata i cui frammenti tendono verso un centro del quale denunciano simultaneamente la scomparsa. Poi, però, ci sono gli ultimi Cantos, i versi testamentari del vecchio Pound: così delicati, così essenziali, così classici…


Con i sedicenti sperimentatori difendere la giusta misura dei classicisti, con i classicisti tromboni difendere il sogno di libertà degli sperimentatori autentici.


Secondo l’anarchico Léo Ferré «la disperazione è una forma superiore di critica». Il nichilismo programmatico di molti modernisti non voleva essere preso in parola: il presupposto era – per dirla con Adorno – che «la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto».


Il flusso di coscienza, efficacissimo strumento nelle mani dei padri modernisti, appare oggi un’arma spuntata. Nato per rappresentare adeguatamente le numerose facce dell’io diviso, poco si presta alle responsabilità alle quali siamo chiamati. Ai nostri anni risultano più necessari i giudizi della sera di Sebastiano Addamo.


«Poeta sarà colui che almeno una volta avrà avuto vergogna di diventarlo»: pensieri come questo dicono la serietà abissale di Addamo. «Tra l’acquistare un libro o delle scarpe nuove per mia figlia, non ho mai avuto dubbi»: in nome di una letteratura fedele alle ragioni della vita, Addamo avrebbe rinunciato alla letteratura stessa.


Oggi abbiamo bisogno di gesti esatti.


Caratterista per l’industria cinematografica, cabarettista da pub nel quartiere San Lorenzo di Roma, Remo Remotti è un artista lucidissimo. Cantore brillante delle proprie nevrosi, Remotti nel pezzo Noi non riusciamo più a vedere scrive: «Il problema signori è che noi non riusciamo più a vedere / crediamo di vedere, ma in realtà vediamo delle cose / che già sono state viste, da altri… / Io vedo laggiù una ragazza, una donna con i capelli rossi / ma per me che sono anche un pittore, / una donna con i capelli rossi è Munch / se fosse bruna, nuda, stesa su un divano, è Modiglioni / su un prato di margherite è Klimt / una puttana signori, una puttana è Otto Dix / una puttana che si riscalda con dei copertoni / sull’autostrada è Fellini / un accattone è Pasolini / un albero, un albero è Mondrian / un prato verde con dei papaveri rossi è Monet / con dei girasoli è Van Gogh».
Remotti ci sa dire mirabilmente il cul de sac nel quale l’ultimo Novecento ci ha ficcati.


Le opere autentiche sono il campo della battaglia per la redenzione tra lo spirito dell’arte e lo spirito del mondo.


Concorrendo a determinare le nostre coordinate culturali, il nostro modo di leggere le cose, l’arte trasforma la realtà. Eppure gira voce che non serva a nulla…


Nell’atto della creazione l’artista non sa fino in fondo quello che fa: ignora se si tratti di un puro gioco estetico, oppure di una missione metafisica tesa a scovare la formula che d’un tratto redima tutto.


Ci salvano certi oscuri uomini di provincia che disinteressatamente si fanno apostoli delle glorie locali; ci salvano quelli che sanno stare con un piede dentro e un piede fuori; ci salvano i non arresi, quelli che dormono nelle botti, i paciosi che si godono l’ombra.


L’artista autentico in un cantuccio recondito ambisce alla corona di spine, non a quella di alloro.


L’aspetto più problematico del mio lavoro creativo è frugare nel cuore dei personaggi: pudore e pietà suggeriscono cautela. Eppure è bello, dal momento che il cuore degli uomini è impenetrabile, svelare almeno il mistero di persone fittizie.


Cammino per le strade di un’antica borgata romana che va diventando un anonimo quartiere periferico della metropoli universale. Mi commuove il ricordo di alcuni versi di Franco Califano, versi di spietata poesia: «Non è detto che adesso che si vive nel chiasso / Si stia meglio che nel silenzio! / È aumentata la gente / Ma si è soli ugualmente, / Il progresso sei tu, poi niente».


L’età del fighettismo, la nostra, è quando in una società sparisce definitivamente l’orizzonte della redenzione.


Non tutti gli artisti di sinistra chiusero gli occhi. Sergio Endrigo cantò i suoi dubbi in Se il primo maggio a Mosca: «E non più feltri grigi in testa / E rigidi attenti da pompieri / E far finta che sia festa / Con medaglie parate e sonagliere / L’importante è sapere se ci resta / La speranza di altre primavere // Ah se il socialismo fosse solo un fiore / Da portare nei capelli / O da mettere all’occhiello / Quanti bravi giardinieri / Con la falce ed il martello». Endrigo non era un pentito, non si era convertito al liberismo sovrano. Al contrario nella sua seconda fase creativa, quella osteggiata dall’industria musicale, scrisse ispirate canzoni intrise di tensione utopica: «Balliamo balliamo / Sugli ex prati verdi / Sui tappeti persiani / Sugli aghi di pino / Che portano al mare / Ci aspetta una nave / Da ormai troppo tempo»…
Dietro la faccia da uomo comune, Endrigo celava un coraggio non comune. Così a metà degli anni Ottanta volle tornare al Festival di Sanremo per proporre una Canzone italiana in cui riaffermava orgogliosamente le ragioni della propria poetica e sfotteva garbatamente i colleghi ubriachi di esterofilia. Lo spirito dell’epoca non dovette apprezzare quella provocazione giacché, mentre Endrigo cantava in diretta televisiva, una specie di sordità psicosomatica lo mise in difficoltà rendendo imperfetta la sua interpretazione.
Un altro punto a favore dei produttori discografici nella loro battaglia per emarginarlo.


Lo spazio dell’utopia è il teatro vuoto prima che cominci lo spettacolo. Il teatro è il luogo della libertà, dell’esame di coscienza collettivo, del sentimento di una fraternità diversa per costruire insieme qualcosa di nuovo.
A spettacolo finito si riaccendono le luci in sala, ci si guarda intorno… non c’è più nessuno.


Carmelo Bene non aveva torto: teatro autentico è l’evento, l’eccezione, quello che ci porta al di là dello spettacolo.


Una delle preziose eredità di Max Horkheimer che la sinistra ha pensato bene di non raccogliere è quella racchiusa in La nostalgia del totalmente Altro. Quando il vecchio Horkheimer formulò i suoi ragionamenti che prefiguravano una sorta di ritorno alla metafisica, fu trattato alla stregua di un povero rimbambito. «La teologia è – devo esprimermi con molta cautela – la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola»: figurarsi, un filosofo di sinistra che esprimeva nostalgia per il divino come strumento di redenzione dell’esistente!


È la parola redenzione quella che emoziona di più.


Ho trascorso infanzia e adolescenza a Mineo, in provincia di Catania, un paese ricco di civiltà e di cultura che molto mi ha dato nella fase formativa. Di Mineo ha lungamente parlato nella sua opera il mio maestro Giuseppe Bonaviri. Tanti conservano la sua immagine degli ultimi anni, quella del nonnino simpatico e un poco bizzarro. Io non dimentico l’altro Bonaviri: il nemico dell’industria letteraria che insegnava a non confondere il successo con il valore.


Di Mineo sono Giuseppe Bonaviri e Luigi Capuana, ma anche il minore Gino Raya. Critico letterario accademico, filosofo dilettante, Raya edificò un castello culturale denominato famismo. Un’opera costituita da una serie di scritti filosofici che fanno sistema, da decine di volumi critici che applicano a livello estetico i principi del famismo, da lavori di discepoli che sotto la guida del maestro sviluppano il discorso di Raya.
Per il filosofo di Mineo è la fame il motore del mondo: tutto è cieco istinto fagico e la cultura non è che una sovrastruttura tesa a nascondere questa evidenza. Non sono d’accordo ma Raya mi è simpatico: egli ebbe il coraggio della propria opera. Baciato dall’insuccesso, affrontò imperturbabile il cammino che lo condusse a morire a Roma isolato e misconosciuto. Del resto probabilmente aveva ragione Borges: «La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore».


Sono seduto nella piazza di Mineo: una piazza ideale, di perfetta semplicità. La statua di Luigi Capuana sorveglia con indulgenza la tranquilla vita dei miei concittadini. Contemplo anche io i loro minuti commerci e per contrasto mi viene di pensare ai fuoriusciti, a quanti seppero trovare il varco verso qualche dimensione altra.


Lo spazio dell’utopia è dentro di noi: sono i momenti in cui avvertiamo l’attesa come necessaria, in cui ci attanaglia come una nostalgia di futuro… Sono quei momenti in cui sappiamo essere qua e altrove, in cui la nostra vita oscura viene rischiarata dal soffio dello spirito liberatore.

 

 

 

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