DELL'ANTIPOLITICA

 

 

 

 

 

Pubblicato nel programma di sala dello spettacolo Hammamet - 25 novembre 2008

 

Pubblicato sulla rivista Mondoperaio - giugno 2009

 

Pubblicato nel libro Hammamet (Sikeliana - 2010)

 

Pubblicato in traduzione francese dalla webrivista Infusion - 24 maggio 2018

 

                                                                Dobbiamo constatare con terrore
                                                                che spesso, opponendoci ai genitori
                                                                in quanto rappresentanti del mondo,
                                                                fummo già - senza saperlo - 
                                                                i portavoce di un mondo ancora peggiore.

 

                                                                Theodor W. Adorno - Minima moralia

 

 

Il giorno che morì Bettino Craxi mi trovavo in un ufficio della sinistra radicale romana. Appena la radio ebbe annunciato la notizia entrò un giovane occhialuto. Rivolgendosi a un impiegato disse: «Craxi è morto, andiamo a brindare». I due si avviarono verso l’uscita. Sette anni dopo la sua “caduta” quei due compagni non concedevano a Craxi nemmeno l’onore delle armi della pietà.
Ripensai con disagio al 30 aprile 1993.  Il telegiornale mostrava le immagini di Craxi che, uscito dal suo albergo, subiva inerme il linciaggio della piazza. Insulti, cori di scherno, monetine. «Se l’è cercata» mi dissi.
In quell’aprile vivevo a Mineo, un piccolo paese siciliano. Con gli amici animavo un movimento culturale e appassionate dispute nei bar. Avevo diciotto anni.
Sono da sempre un “socialdemocratico massimalista” e all’epoca simpatizzavo per il Partito della Rifondazione Comunista. Avversavo la Democrazia Cristiana perché, ai miei occhi, rappresentava la chiave di volta del sistema di potere clientelare che da cinquant’anni soffocava la società italiana. Il giudizio su Craxi era più articolato: da un lato guardavo con interesse alla prospettiva di un governo di sinistra a guida craxiana, dall’altro ritenevo il suo socialismo troppo liberale e troppo “contaminato” dall’esperienza di governo con la Democrazia Cristiana.

 


Desta inquietudine il ricordo di quegli anni. Nel 1992 e nel 1993 il paese fu attraversato da un’ondata di ferocia collettiva. Noi italiani ci convincemmo che la classe politica di governo fosse un’accolita di corrotti e avvertimmo imperiosa l’esigenza di sbarazzarcene. Decine di procure si misero a indagare contemporaneamente, centinaia di persone furono incarcerate. I politici indagati per finanziamento illecito ai partiti venivano trattati dall’opinione pubblica alla stregua di pericolosi criminali. Era come se la presunzione d’innocenza fosse temporaneamente sospesa: le procure istruivano le indagini,  le condanne venivano decretate sui giornali, sugli autobus, nei bar. Pazienza se qualche innocente fosse finito nel mucchio, le “rivoluzioni” hanno il loro prezzo. Comune ai più era l’impressione di vivere anni “rivoluzionari”, come se quei politici democraticamente eletti fossero tiranni da abbattere. Le immagini televisive evocavano proprio quelle del 1989, quelle della caduta delle tirannie comuniste: palazzi assediati, slogan violenti, piazze in festa…
La figura su cui principalmente si riversò l’odio collettivo fu quella di Bettino Craxi: perché di quella classe politica era il più autorevole rappresentante, perché fu l’unico a contrapporre al nostro furore un tentativo di  difesa delle proprie ragioni. Stretta tra l’incisiva azione della magistratura e l’unanime biasimo popolare, la cosiddetta prima repubblica crollò rovinosamente.

 


L’Italia di quegli anni era un paese guasto: dilagavano il nepotismo, la corruzione, l’amoralità. Il nostro scontento era decisamente legittimo, ma peccammo d’impazienza.
Fu ingiusto mescolare battaglia politica e canea giustizialista. Meglio sarebbe stato sostituire il personale politico per via elettorale. Meglio aspettare serenamente l’accertamento delle eventuali responsabilità penali. Meglio separare gli errori dei singoli dai meriti storici che dopotutto quella classe politica aveva: aver  ricostruito il paese dalle macerie della seconda guerra mondiale e averci difesi dal regime comunista dell’Unione Sovietica.
Io non saprei dire  se taluni magistrati commisero abusi (certe dichiarazioni, a rileggerle oggi, sconcertano), sono però certo che il nostro comportamento fu ignobile.

 


Una delle infamie di quegli anni fu trasformare la parola socialista in un insulto. Erano invece tante le buone ragioni per essere socialisti nel nostro paese: perché lo “strappo” dall’Unione Sovietica Pietro Nenni lo fece nel 1956, in segno di protesta contro l’occupazione militare dell’Ungheria in rivolta, i comunisti dopo, molto dopo; perché c’era «un partigiano come presidente», Sandro Pertini; perché l’Italia, schiacciata tra la chiesa cattolica e quella  comunista, aveva bisogno di essere un po’ modernizzata…

 


Noi di sinistra su quegli anni abbiamo molto da rimproverarci.
Fu un errore cavalcare l’ondata giustizialista.
Fu un errore favorire il vuoto di potere che portò al governo Silvio Berlusconi (e poteva andare anche peggio). Berlusconi non è un cavaliere nero venuto dal pianeta del male per rovinare il belpaese. Lo schianto della prima repubblica aveva creato un vuoto di rappresentanza politica nell’elettorato moderato: Berlusconi, colmando quel vuoto, salvaguradò di fatto la democrazia destabilizzata.
E fu un errore il trattamento che riservammo a Craxi. Indubbiamente il leader comunista Enrico Berlinguer era «una brava persona», ma su molte cose era il socialista Craxi che aveva ragione. Purtroppo ancora oggi c’è chi pensa che tanto meglio avere torto con Berlinguer che ragione con Craxi. Poveri noi!

 


Dopo secoli di apologie sovente prezzolate, da un po’ di tempo in qua potenti e potere godono di pessima stampa. Il potere politico, oramai, è considerato da tanti una sorta di male in sé. Certo, ogni società è autoaffermativa e il potere politico rappresenta il suo principale strumento per perpetuarsi, ma c’è una bella differenza tra il potere battezzato dalle urne elettorali e tutti gli altri. Al di fuori delle democrazie, per quanto imperfette possano essere quelle contemporanee, c’è la pura sopraffazione del protervo sul più debole. Tanti, invece, si compiacciono di denigrare la democrazia come favola per allocchi. Tanti, pur di colpire l’avversario politico, non si fanno scrupolo di screditare l’istituzione che questi rappresenta. Tanti, purtroppo, propagandano la retorica antipolitica. Si profila così una generazione di “anarchici di massa” aizzati contro “lorsignori” da legioni di intellettuali immancabilmente “scomodi”. Un tempo l’anarchia era una cosa seria, oggi – troppo spesso – una comoda via di fuga per eludere i nodi problematici del reale.
Questa cattiva ideologia viene invero da lontano ma è negli anni 1992 e 1993 che diventa popolare. Questa cattiva ideologia, bisogna ammetterlo, è figlia anche di una certa cultura di sinistra, di tante belle canzoni “impegnate” e del loro qualunquismo foderato d’intellettualismo. Questa cattiva ideologia, purtroppo, è figlia anche del Pasolini  polemista corsaro. O meglio: della trasformazione in dogmi delle sue provocazioni. Gli articoli di Pasolini erano stimolanti ma discutibili: il suo mettere nello stesso calderone - in nome di un Partito Comunista Italiano ingenuamente idealizzato – la Democrazia Cristiana, i servizi segreti deviati, i neofascisti e i signori dell’industria era alquanto semplicistico. Destano però inquietudine le analogie tra il “Processo” alla Democrazia Cristiana da lui auspicato e quanto davvero accadde nel 1992 e nel 1993.
Di matrice pasoliniana è poi la dilagante cultura dell’«io so». I suoi «io so», brillanti provocazioni di un intellettuale antagonista, hanno aperto la porta a complottismi e dietrologie di ogni sorta, a veementi j’accuse senza l’onere della prova.
Leonardo Sciascia diceva di essere d’accordo con Pasolini anche quando aveva torto: mi permetto di dissentire. Del resto, alla passione e all’ideologia di Pasolini mi sembrano preferibili la ragione e la lezione garantista di Sciascia.
Pier Paolo Pasolini, che si voleva “cattivo maestro”, ha subito la ventura di essere innalzato agli altari. E quando un “cattivo maestro” viene eletto come maestro dai più, finisce per partorire una cattiva generazione.

 


A conti fatti quegli anni “rivoluzionari” crearono più problemi di quanti ne risolsero. L’economia ha continuato a declinare e troppe promesse non sono state mantenute: le lobby imperano incontrastate,  malaffare e nepotismo dilagano più che mai… Quindici anni di seconda repubblica hanno purtroppo mostrato che i mali imputati alla classe dirigente della prima sono in realtà i nostri mali nazionali. I capi d’accusa erano sbagliati: il “Processo” dovrebbe considerarsi annullato.

 


Non si può dire che l’Italia fu con Craxi «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio». Certo, la scelta di sottrarsi – pur nel clima avvelenato di quegli anni - ai processi e poi alle condanne giudiziarie resta opinabile. Certo, c’era chi approfittava del finanziamento illecito della politica per arricchirsi personalmente e c’è chi continua a nutrire dubbi sulla condotta di Craxi. Il tempo aiuterà a fare  chiarezza. Ma quand’anche l’uso privato dei finanziamenti politici fosse un giorno provato incontestabilmente, resterebbe doveroso concedergli un giudizio storico a tutto tondo. Abbiamo tutti diritto a un giudizio equo, a un giudizio giusto.
Nessuno può essere ridotto ai suoi errori.

 

 

 

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